Jenin
storia di una lotta senza armi
Se dico Jenin a cosa pensi? Dove sta esattamente? Di preciso non lo sapevo nemmeno io, ma di pelle mi evocava un qualche documentario sulle tragedie umanitarie, mi risuonava come le breaking news di un TG sulle guerre e le efferatezze consumate in remoti paesi del Medioriente. Ci arrivo in un autobus da Hebron. La Lonely Planet cita un solo ostello, che scopro essere ingombro di calcinacci e roba accatastata, chiuso mi dicono, perché la porta è comunque aperta e dentro ci sono ragazzi e ragazze che leggono o smanettano il cellulare.
“Posso lasciare qui lo zaino che faccio un giro?” chiedo a una tizia.
“Ok, ma non metterci troppo perché alle cinque chiudiamo”
“Sai dov’è il Freedom Theatre”?
“E’ nel campo profughi”
Fine della conversazione mi fa capire, rimette il naso nel libro che stava leggendo e io seguo la striscia viola del navigatore tra vie senza nome. Dopo averci passato due notti a Betlemme, ho capito qualcosa sui campi profughi palestinesi. Prima di tutto non sono distese di tende, come si potrebbe pensare, ma cubotti in muratura perché esistono dal 1948. Sono labirinti di cemento con le vie strette come le calli di Venezia, ma invece che i tetrarchi e il leone di San Marco, sui muri sono dipinti giovani uomini e donne morti ammazzati o esplosi per scelta o sfiga. A Jenin le costruzioni si sono accumulate ai lati di una più larga via principale con tanto di marciapiede, sono tutta una fioritura di tondini di ferro che sbocciano dal cemento e, come a Venezia, sono umidi per i rigagnoli che scolano dalle cisterne nere che svettano dai tetti piatti. L’acqua non arriva sempre e quando c’è si fa scorta e le tubature incredule sprizzano schizzi da tutti i fori. Gli stormi di ragazzetti sono da tipico manuale del disagio: meravigliosi e ambigui, sorridenti e lanciatori di sassi, stringono le mani e sputano insulti, vogliono selfie e soldi. Solita tecnica, sorridi e allunga il passo, batti un cinque e fingi di non capire.
A un certo punto del lungo marciapiede c’è un grande albero e le cinquanta sfumature di grigio di case e muri si sciolgono nel colore. Giallo, viola, verde, fuxia, azzurro. E’ l’ingresso del teatro e i colori sono quelli dei un murales. Non che non ci siano altri murales nel campo e in generale in tutte le città Palestinesi. I campi profughi sono una galleria di scritte e ritratti, un libro dei morti miniato con spray e pennelli, ci sono artisti pagati apposta per riprodurre da una foto le fattezze di uomini e donne. Solo che i temi sono giovani con il mitra puntato, carri armati con la bocca di coccodrillo che si mangiano Gerusalemme, belle ragazze con la pistola avvolte nella kufiya, militari perquisiti da fanciulle in gonnella, braccia ammanettate che spezzano catene, bambini che giocano a saltare la corda di filo spinato, donne col vestito tradizionale che lanciano pietre, ci sono pure il Che Guevara e una teoria bizantina di volti e volti, volti che non finiscono mai tutti accompagnati dalla data di morte. Se ne indichi uno a caso, quelli del campo sanno dirti nome e cognome e tutta la parentela. Sono i loro martiri, come Ayaat All Akhras, la bella ragazza con la pistola, una diciottenne entrata carica di esplosivo in un supermarket di Gerusalemme. La guardia si è accorta e ha fatto in tempo a fermarla all’ingresso… e così insieme a lei sono esplose solo una coetanea israeliana che passava di lì per caso e la guardia stessa.
Le ragazze del Freedom Theatre invece no, loro sembrano diverse. In mano hanno il pennello e con le bombolette spray scrivono “resistenza attraverso l’arte”. Una fa capolino dal muro, un’altra spunta da uno sfondo giallo arancio, ha una hijab viola e spruzza una scritta in arabo, mentre nell’altra mano tiene la città di Gerusalemme adagiata come in un vassoio per gli antipasti. Di fianco a lei un’altra, capelli neri folti e sciolti, orecchini dal grande cerchio, sorride nel suo vestito azzurro vagamente hippie.
Nella parete di fronte due uomini abbracciati stanno in piedi, sorridono e agitano il pugno alzato. Uno ha gli occhiali e la kufiya, l’altro barba e capelli brizzolati e una sciarpa rossa. Chi sono?
Entro, vicino alla porta, come in tutti i teatri del mondo, il cartellone con le locandine degli spettacoli passati e futuri. Nell’atrio ci sono un bancone nero, che fa da biglietteria, il pavimento di assi e un divano. Una ragazza mi saluta, è una volontaria, viene da Oxford e sta lavorando alla regia del prossimo spettacolo. Un altro paio di ragazzi, uno biondo, l’altro con i colori scuri di chi sta a sud del biondo, stanno sistemando dei materiali. Quello con la faccia diversamente bionda mi offre il te e dice che è stanchissimo, sono appena tornati da una tournee in Giordania e in due giorni avrà dormito otto ore.
Bevo un te, un secondo, un terzo, la ragazza inglese non si scolla dal monitor, gli altri due continuano a scaricare. Aspetto sul divano, forse non è il momento o forse è il Medioriente, forse meglio andare, tanto non ci sono spettacoli in programma e per fare i volontari qui ci vogliono una sfilza di competenze, mi spiega la Oxford che evidentemente si da delle arie.
Poi arriva Muhammad e mi racconta una storia. Sempre la stessa storia che racconta a chiunque metta il naso qui dentro e no, non è stufo di raccontarla, deve raccontarla, che sia a me o al direttore della Scala. La storia inizia da Arna, una ragazza israeliana mandata qui a combattere durante il servizio di leva nell’esercito.
“Lei era israeliana, era arrivata qui per fare la guerra, ma vede com’è la situazione – dice Muhammad – vede i bambini e decide di fare qualcosa”
Finito il militare Arna torna a Jenin e diventa attivista per i diritti umani e delle donne. All’inizio distribuisce fogli e colori per fare giocare i bambini in strada. La sua proposta alternativa, del tutto inedita per questo contesto la cui grammatica conosce solo martiri e bombe, è la creatività. Nel 1993 ad Arna Mer Khamis viene conferito il Right Livelihood Award, un riconoscimento creato dall’ex parlamentare europeo Jakob von Uexkull, dedicato a chi si impegna per migliorare la qualità della vita in particolare nel sud del mondo. Con il ricavato del premio costruisce il teatro dei bambini.
Esiste un film documentario sui primi attori di questo teatro, “Arna’s children” girato dal figlio Juliano e dal regista Danniel Danniel. Bambini che per la prima volta nella storia di un campo profughi andarono in scena con uno spettacolo vero, in un teatro vero, con tanto di luci e costumi. Era la prima volta a teatro anche per la quasi maggioranza delle persone, una rivoluzione per questa gente, un sogno. Lo disse bene Juliano in un’intervista “Il teatro è un posto dove puoi sognare e qui non sogniamo più, nemmeno i bambini, o sogniamo la morte . Non puoi creare una resistenza con la disperazione, con la disperazione puoi solo creare attentatori suicidi”
“Oggi quei bambini, i piccoli attori di Arna sono tutti morti – continua Mohammad – sono entrati nelle fila dei combattenti e sono morti. Dobbiamo trovare un’alternativa, la resistenza va fatta attraverso la cultura, attraverso l’arte, con il teatro. Questo spiazza gli israeliani. Noi siamo scomodi, più scomodi delle bombe perché così non hanno nessuna scusa per attaccarci. Anche per la società qui siamo scomodi, sai quanto è difficile convincere le famiglie a fare recitare le femmine? La famiglia tradizionale, l’autorità palestinese, gli insegnanti non ci vedono di buon occhio, mentre ragazzi e bambini ci adorano. Il teatro è il luogo dove siamo tutti uguali e ognuno ha gli stessi diritti”.
Parole facili da capire per me, che sono italiana, che sono nata e sto vivendo nella pace, ma guardati intorno, cosa ti circonda, parole e azioni che in questo contesto hanno una potenza incredibile. Mohammad nel frattempo mi ha portata all’interno del teatro, una sala con pavimento e pareti nere e le gradinate azzurre e rosa. Mi spiega che l’hanno dovuto ricostruire tutto da capo. Nel 2002, durante la seconda Intifada, i bulldozer israeliani hanno raso al suolo la maggior parte degli edifici del campo, compreso il vecchio teatro.
“E’ stata la determinazione di Juliano, tornato a dirigere il progetto dopo la morte della madre, a darci la forza per ricominciare e oggi il Freedom Theatre continua a resistere con la forza di un’utopia. Ospita esperti e volontari da tutto il mondo, si impegna a produrre nuovi spettacoli, a portarli in tournee, propone workshop e la scuola di teatro per adulti e bambini”.
Il 4 aprile del 2011 Juliano è stato ucciso.
“E’ successo proprio qui fuori da dove sei entrata. – dice Muhammad – Era notte, qualcuno l’ha aspetto, gli ha sparato ed è fuggito… un personaggio scomodo, l’ho detto, qui a fare teatro qui si rischia la vita”.
Juliano è l’uomo con la sciarpa rossa nel murales all’ingresso. L’altro, quello con gli occhiali è Naji al- Ali un fumettista molto famoso in Palestina, ha inventato il personaggio di Handala, il bambino con le chiavi, che simboleggia la più grande speranza dei profughi palestinesi: tornare un giorno alle proprie case, al proprio villaggio, usare quelle chiavi, che molti si sono portati via , così come fecero gli ebrei ad Auschwitz, per riaprire i loro portoni. Lui è stato assassinato a Londra nel 1987 gli hanno sparato mentre usciva dalla sede di un giornale con cui collaborava come caricaturista. Anche per lui l’arte era un modo per resistere, per esistere, come il colorato teatro della libertà di un campo profughi, il sogno di Jenin, la Palestina occupata.