Selva Lacandona

Perdersi nella giungla, Chiapas (Messico)

Non si può. Non si può fare. Non c’è il sentiero. Vi perdete. È pieno di fango. Molto fango. Animali. Acqua. È scivoloso. Ci sono torrenti. Tronchi. Non ci sono indicazioni. Non lo fa nessuno. Non potete andare da sole nella giungla. Suvvia, non è che siete un tantino esagerati? O forse no, forse avete ragione, io non so molto di foresta tropicale, magari parto baldanzosa ma dopo mille passi mi si pianta una palla d’ansia nella pancia, resto bloccata senza manco avere lo spirito di tornare indietro e chi mi troverà per primo, un contadino o un giaguaro?

Eppure. Eppure non sono tanti chilometri fino alle cascate. Eppure qualcuno l’ha fatto: ci sono le istruzioni sulle App che condividono i sentieri. Il percorso è segnato, è di un bel blu carico; d’accordo, non ha la precisione di uno spartito musicale, d’accordo, ci sono tratti che deviano e tornano indietro e fanno contorsioni. Ma magari non c’entra, magari chi camminava aveva un cane al guinzaglio che deragliava perché aveva fiutato qualcosa di succulento, o perché doveva pisciare o perché gli andava di fare l’ubriaco e così ha incasinato la traccia. Comunque, quelli delle App lo hanno scritto chiaro: sono andati per conto loro. Sbagliando qua e là, con indecisioni a forma di otto ma senza una guida. E i giaguari ci sono, sì, ma se ne stanno imboscati e ad avere contatti con noi umani non ci tengono neanche un po’. Quindi che si fa? Si fa che andiamo. Io e Fra. Da sole. Punto.

La Selva lacandona, nel Chiapas occidentale, si allunga nella foresta. Dopo una notte di sonno condiviso con palline d’acqua che rimbalzano sul tetto di fronde intrecciate della nostra capanna (peraltro perfettamente repellente all’acqua), insomma dopo una notte che piove a dirotto, ci mettiamo in marcia. Camminiamo lungo la sola strada di Lacanjà, dietro una casa, superato un ruscello e un campo, con l’aiuto delle coordinate GPS scaricate sul cellulare troviamo il filo di un percorso. Beccato, alé. Lo imbocchiamo con prudenza, perché la giungla è un ambiente complicato per chi non lo conosce. È come il deserto. Proprio così, anche se la selva è così fitta che non si vede il sole mentre il deserto è così sgombro che sopra le teste c’è solo il sole. Ma in entrambi perdere l’orientamento è questione di istanti. Ti volti e se non c’è un segno deciso non hai idea della direzione di provenienza. Nessuna idea. Nella giungla perché c’è troppo. Nel deserto perché c’è troppo poco.

Ci mettiamo poco a capire che non è che non ci siano i sentieri, anzi, tutto il contrario: ce ne sono troppi. Ci sono tracce su tracce, girano attorno agli alberi con le radici sporgenti e levigate, passano tra le liane, si tuffano negli spunti d’acqua e riemergono dall’altra parte: cos’è questo via vai? Questo pestare il suolo non ha niente a che vedere con percorsi escursionistici: sono le impronte di gomma dei contadini che vanno nei campi, perché solo di selva e di piccolo turismo non si vive. Il vero punto focale di questo primo tratto di giungla, quindi, non è l’assenza di piste, ma il suo opposto. Non che questo ci semplifichi le cose: tra queste diramazioni quale sarà quella per le cascate? Pardon, rettifico, la domanda giusta in realtà è: esiste una pista per le cascate? Quanto al fango, con l’acqua di ieri notte è naturale che il terreno sia chiazzato di pozzanghere. Affondiamo continuamente, le suole si impregnano di poltiglia e invidiamo i pochi che incontriamo, tutti con ciabatte Crocs o stivali. Calzature che è un attimo farle asciugare e rimetterle in sesto dalle incrostazioni, basta pucciarle in un torrente. Hai voglia a togliere l’umido e la terra dai nostri scarponcini in goretex.

Nel fango camminiamo lente e ci sporchiamo molto. La foresta fa un sacco di suoni: richiami di uccelli che non si vedono, a parte i passeri, fruscii misteriosi, forse sono gli aguti, che somigliano agli scoiattoli ma non hanno la coda, toc toc dall’alto, scimmie che saltano? Frutti che cadono? E, a un tratto rombare. Ci fermiamo, restiamo in ascolto. Un casino così lo fanno i tir in autostrada oppure l’acqua. Tanta acqua. Proseguiamo, il rombo si fa più intenso. Un altro po’ e arriviamo: la selva si apre a ospitare acqua che fa salti acrobatici, uno, due, cinque salti. Gorghi, pozze, corrente. Le cascate. Che sia fortuna, che siano le indicazioni in blu della App, che sia un mix delle due, le abbiamo trovate. Ci sediamo in bilico tra le radici, circondate da vapore che rinfresca. Facciamo merenda con un avocado grande come un melone. E poi il bagno.

La sera ricomincia a piovere. D’altronde, c’è scritto in ogni libro di scuola: la foresta tropicale è uno scrigno pazzesco di biodiversità, è un ambiente umido, con bassa escursione termica annuale. E ha piogge costanti tutto l’anno. La biodiversità di flora e fauna si suda, ragazzi, non te la servono con il sushi, non cresce nell’aria condizionata. Nella giungla di tirato a lucido ci sono solo le foglie di milioni di alberi.

 

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