Vendemmia
Quel 30% in meno
Una storia di uva e di uomini tra Canton Ticino e Piemonte
Forbici, guanti, cassette di plastica rossa. E filari. Filari lunghi che non si vede dove vadano a finire, filari che girano intorno al sole e alle colline. Alcuni salgono ripidi per le coste dei monti, altri trasformano il paesaggio in un gran mare verde e ondulato che quando si è in mezzo è un attimo perdere l’orientamento: da che parte è la cantina? Dove ho lasciato zaino e bottiglia dell’acqua?
Ci sono filari di Merlot e di Chardonnay, di Sauvignon e di Solaris per fare il passito. Ci sono viti con acini smagriti perché cervi e cinghiali sono passati a smangiucchiarli e altre con grappoli densi che peseranno mezzo chilo l’uno.
Ci sono foglie verdi che con il passare dei giorni prendono a virare in giallorosso.
Ci sono anche ortiche, api, ragnetti, piccole magie di nidi acquattati tra i tralci e il sole che nel tempo del lavoro compie tutto un semicerchio.
E c’è un suono, costante come un’eco sottile: zic, zic, zic. Sono decine di forbici che tagliano un grappolo dopo l’altro dopo l’altro dopo l’altro.
È il suono della vendemmia.
Settembre, il tempo dell’uva.
Si vendemmia in Piemonte, regione di vini famosi e pregiati che vengono fin dal Giappone e dalla California a comprarli. E si vendemmia nel Canton Ticino, anche se forse è me- no risaputo e il vino meno rinomato, almeno penso.
Io vendemmio in provincia di Alessandria e nei pressi di Lugano, contemporaneamente e a giorni alterni.
La vigna nell’alessandrino è caldissima e grande che non se ne vede la fine. L’uva è biodinamica: niente prodotti chimici per produrre un vino senza solfiti aggiunti e vegano. Forse per questo i grappoli sono brutti e gli acini irregolari: perché non hanno tratta- menti a renderli tondi e precisi come fossero usciti da un cartone animato. O magari è colpa della polvere: una polvere che è un castigo, va da tutte le parti, si impiglia nei capelli, fa scricchiolare i denti, si mescola al sudore, si appiccica alle gambe.
Quello della vigna è un mondo variegato, con persone diverse per età, estrazione sociale e culturale, forza fisica, ruolo e potere. In testa c’è la famiglia dei padroni: la signora, che anche alle 7 di mattina è in tenuta da cavallerizza, il marito, che fa le degustazioni sotto il pergolato, e il figlio adolescente; nessuno dei tre saluta quando ci vedono. Poi ci sono il responsabile di cantina e il trattorista, che vengono dall’Albania e sono magri che paiono due pali della luce. Quello che ci controlla e ci sta addosso è un tizio che si è trasferito qui dalla Puglia 30 anni fa per fare il ferroviere; ha boccoli tinti di biondo che gli arrivano alle spalle stile divo e lavora extra, perché è in pensione.
Nella squadra dei tagliatori, cioè gli stagionali, cioè noi, ci sono sei ragazzi del villaggio qua di fianco che alternano il lavoro con l’inizio dell’anno scolastico, dandosi il cambio e facendo i turni a seconda dell’orario delle lezioni. Alcuni hanno radici che affondano in questa terra, le facce di altri raccontano provenienze lontane: Ecuador, Ucraina, italiani di seconda generazione. Ci sono una mamma con la figlia: la mamma ha la voce roca e non stacca mai le mani dall’uva, neanche quando i capelli sono stoppa terrosa. La figlia ha braccia che paiono le cosce di un pugile e impila sul trattore le cassette come fossero piene, anziché d’uva, di pensieri: “sono abituata, gioco a rugby”, dice. C’è un giovanotto fissato con la palestra che fa il calcolo di quante calorie si consumano in un giorno di lavoro; un altro studia Scienze politiche, ha i capelli neri con in mezzo un ciuffo color Raffaella Carrà, dopo un’ora ha la faccia che pare un pomodoro scoppiato, si trascina affranto e sporco dicendo: “non ho mai fatto niente di così faticoso”. Hai mai provato il rugby? Verrebbe da chiedergli. C’è una coppia di mezz’età incasinata di figli, appena possono si attaccano al telefono per risolvere pasticci, iscriverli a qualcosa o organizzare un incontro con qualcuno; c’è un altro albanese che parla solo di soldi, lo mettono in coppia con una ragazzina che, forse per reazione a quelle slavine di parole, sta sempre zitta.
Iniziamo alle 7, alle 8 o alle 8,30, dipende dal tempo e dalla rugiada che, andando avanti con i giorni, sta aggrappata sempre più a lungo sui grappoli. Perché se l’uva è bagnata non si taglia.
Dopo due ore abbiamo dieci minuti di pausa, altre due ore e ci si ferma per il pranzo. Il pomeriggio è come la mattina: quattro ore con dieci minuti di intervallo. Totale: otto ore. A pranzo si mangia, ognuno quello che si è portato da casa, sotto un grande albero tra la villa e i cavalli, entrambi dei padroni. La pausa lunga è fatta per lo più di calura, di silenzio e di gente con gli occhi che vanno dal panino al display del telefono. Nelle pause corte, invece, si resta in vigna, non c’è tempo da perdere per tornare alla villa, a fare cosa poi, a guardare i cavalli della signora? Così ci si getta in un angoletto ombroso per bere e mangiare un pezzo di focaccia che porta il trattorista magro. I fumatori si accendono una sigaretta, gli altri li guardano.
Poi si ricomincia.
Si lavora chini e accucciati, le forbici tagliano veloci, i guanti diventano appiccicosi di zucchero e attirano le vespe. Si sta uno da una parte e uno dall’altra, così quello che non vede l’uno lo vede l’altro e non si lasciano grappoli attaccati alle piante, che i capi s’infuriano. Ognuno ha un cavagno, che ci portiamo appresso finché non è pieno: allora, lo svuotiamo in una cassetta più grande e ci spostiamo. Di tanto in tanto qualcuno grida: “cassetta!” perché è rimasto senza: c’è sempre qualcun altro che ne ha d’avanzo e che ne fa volare un paio sopra teste e filari.
Quando le cassette sono piene le lasciamo lì. Poi, alzando polvere e sbuffando fumo puz- zolente, arriva il trattore: dal cassone dietro salta la ragazza-rugby, prende le cassette e le impila (come fa a sollevarle?) Quando il carico è completo le portano in cantina, dove vengono scaricate per dare inizio alla lavorazione. Ma quello è un lavoro al quale noi non partecipiamo.
A fine giornata ci mettiamo in fila dove c’è la canna dell’acqua. Tutti bevono, qualcuno lava i guanti (altrimenti domani saranno rigidi di zucchero) o si sciacqua le spalle e le gambe. Capita che ci si fermi a scambiare una battuta o che si vada dritti filati a casa, la testa già rivolta ai figli e ai loro casini o a cosa preparare per cena.
In Canton Ticino ci sono filari per ogni dove: vicino alla dogana, di fianco all’autostrada, nei giardini di case rustiche e di chiese medievali, attorno ai laghi e nei pressi di prati popolati di mucche.
La mia vigna svizzera sale per il costone di un monte: quando arrivo in cima mi pulsano i polpacci tanto è ripido ma la vista è uno schianto, tutto il lago di Lugano e, sullo sfondo, una collana di monti. È così bello che di fianco ai filari passano un treno panoramico e un sentiero: gli escursionisti con bacchette e scarponi si fermano a prendere il fiato e fer- mandosi salutano noi lavoranti.
Con l’uva che taglio quassù si fa un merlot che qualche anno fa ha vinto dei premi. È un piacere da guardare, tonda e violetta. Non è né biologica né biodinamica ma non fa venire (tanto) mal di schiena: le viti sono alte, non occorre accucciarsi e fare le contorsioni, basta inclinarsi un poco, allungare le mani et voilà, è fatta. E questo, quando si vendemmia, conta.
L’enologa è una ragazzona ticinese con i capelli a spazzola; gli altri, tutti tranne una, sono italiani. Siamo italiani noi, arrivati per la raccolta, e quelli che lavorano qui tutto l’anno: il custode e il giardiniere, che danno una mano in queste settimane.
Il custode vive con la moglie nell’azienda, che oltre alle vigne ha il ristorante e la tenuta agricola. Abitano sotto il ristorante, hanno una casa grande ma cupa piena di piante e di elettrodomestici e vengono da Salerno. Lei è fissata col mangiare: appena può ci rimpinza di dolci e liquori. “Dove si vive meglio”, le chiedo mentre bevo il suo finocchietto, “a Salerno o a Lugano?” “A Lugano, senza dubbio. Qui il lavoro viene rispettato, da noi la mentalità è un problema, lo dico sempre alle mie nipoti, smettete di vivere da parassiti o di non fare niente a spese degli altri. Prendine un altro po’, vedrai come lavori bene dopo. Ma quale mi gira la testa, figuriamoci, tutto buono e fatto in casa.”
Il giardiniere abita appena oltre una delle tante dogane e guida la motocarriola che raccoglie le cassette, man mano che le riempiamo. Poi ci sono tre ragazzi giovani, di quelli un po’ girovaghi un po’ disoccupati un po’ cialtroni; c’è una che abita a Varese ma fa l’università qui così spera di trovare lavoro in Svizzera.
Qualche volta viene ad aiutare anche la contabile della ditta: il papà è calabrese, la mamma viene dal Friuli, si sono incontrati a Zurigo dove ne sono emigrati tanti, di italiani, nel dopoguerra. È lei la non italiana. Che poi, non italiana neanche troppo a ben vedere… Il Ticino è così: una regione in cui si mescolano tutti i dialetti d’Italia ma che allo stesso tempo storce il naso per la nostra presenza, soprattutto per i frontalieri del quotidiano andirivieni, tanto che al recente referendum contro la libera circolazione delle persone ha votato in maggioranza “Sì”.
La mattina in Svizzera si inizia alle 8, alle 8,30 o alle 9 e si lavora un numero di ore variabile, dipende dal tipo di uva da raccogliere. I filari sono protetti da reti, soprattutto per evitare i danni della grandine: il primo lavoro è staccarle e alzarle. Poi si aspettano le istruzioni dell’enologa, che ci dice cosa fare con i grappoli attaccati dai cinghiali o suc- chiati dai moscerini, con le parti ammuffite e con le femminelle. Il lavoro va fatto bene e con attenzione, gli acini ammuffiti vanno tolti uno a uno mentre le femminelle, grappoli nati da rami secondari, sono da buttare. Vorrei proprio sapere a chi è venuto in mente di chiamare “femminelle” i grappoli tardivi.
Quando iniziamo la terra sa di umido, i piedi si bagnano e l’ombra del monte rende tutto freschetto. Non c’è nemmeno un grammo di polvere.
A metà mattina ci portano caffè e merendine, a pranzo pizza o lasagne. Mangiamo con le cassette di plastica a fare da sedia o da tavolinetto. L’orario è duttile e imprevedibile, il ritmo tranquillo tranne quando, a fine giornata, c’è da pulire la cantina e da lavare le cassette. Lì si che si corre, siamo stanchi e vogliamo chiudere la giornata così si corre e ci si spruzza da capo a piedi. Meglio avere sempre un cambio in macchina.
Il secondo giorno, in Piemonte, il cantiniere ci dice che è in arrivo il contratto. La qualifica è di “operaio agricolo”, la paga di 7 euro all’ora. Il contratto non è mai arrivato, né a me né alle casse dell’Inps.
In Canton Ticino ci fanno un permesso di lavoro temporaneo. Non ho visto neanche quello, ma l’enologa assicura che siamo registrati e possiamo presentarci in dogana tranquilli senza architettare scuse fantasiose: basta dire il nostro nome e quello dell’azienda e le guardie ci faranno passare. Ce lo dice dopo che un giorno i ragazzi girovaghi vengono fermati e, non sapendo del permesso e tutto, inventano che stanno andando a fare un giro per i negozi di Lugano. Siccome hanno pantaloni da lavoro e scarpe anti-infortunistica i doganieri non se la bevono: gli fanno un bell’interrogatorio e loro arrivano con mezz’ora di ritardo.
La paga è di 16 franchi all’ora.
NOTA Il 27 settembre 2020 c’è stato il referendum «Per un’immigrazione moderata (Iniziativa per la limitazio- ne)». L’iniziativa era volta a porre fine alla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’UE. Ha vinto il “No” con il 63%; in Canton Ticino, tuttavia, il 53,1% dei votanti si è espresso per il “Sì”.
Si stima che il totale dei frontalieri italiani in Ticino sia di circa 66.000 persone: il 30% degli occupati su suolo cantonale.
Il terzo giorno in Piemonte inizia con un doppio discorso. “Dovete aumentare il ritmo”, dice il cantiniere, “siete lenti, ieri è andata male, molto male, oggi è un giorno chiave, chi resta indietro sarà lasciato a casa”.
Poco dopo il ferroviere coi boccoli aumenta il carico. Sale sul camion come se fosse un podio e dice: “ieri avete riempito 500 cassette. Solo 500. Bisogna arrivare a 800, altrimenti vi lasciano a casa e al vostro posto chiamano una cooperativa”.
Poi se ne va, oggi ha da fare in cantina. Tanto ci pensa quella con la voce roca, quella che taglia senza sosta, a gridare per i filari: “veloci, forza, andate più veloci”. Di tanto in tanto aggiunge: “non lasciate grappoli sugli alberi, non strappate l’uva, niente uva per terra, veloci, dai ragazzi!” Per fortuna a un tratto si stanca. Fa troppo caldo per urlare tutto il tempo. Tanto i filari non le rispondono. Durante la pausa per la focaccia la sento fare al ferroviere l’elenco di quelli rimasti indietro. Entrambi lavorano qui tutto l’anno: praticamente sono come il custode e il giardiniere della Svizzera. Ma a differenza di quelli lassù, che sono pacati e si fanno i fatti loro, questi sono annodati in un misto di attaccamento alla terra, di deferenza e timore per i padroni e di un certo gusto per il piccolo, temporaneo potere che possono esercitare su di noi.
Nessuno, comunque, viene lasciato a casa: la cooperativa è uno spauracchio a cui non crediamo, è chiaro che costerebbe più delle nostre mani. Ma la trappoletta funziona anche se non ci crediamo: tra quella là che grida e quell’altro in cima al camion, andiamo come pazzi, tagliamo rapidi e gettiamo l’uva nella cavagna a tre grappoli per volta, ci viene una sorta di furore, di competizione con chissà cosa, in realtà con niente, controlliamo a che punto sono gli altri, il sudore va negli occhi ma non lo togliamo, ci sporchiamo ma non importa, non dobbiamo restare indietro, bisogna stare al passo. Spalle, collo e schiena iniziano a fare male non, come al solito, dopo pranzo ma già a metà mattina. Però è troppo: dopo mangiato la stanchezza si mescola alla calura e i movimenti si ritirano. Rallentiamo. Ma siccome quelli controllano, ti battono pure sulla spalla se non vai abbastanza veloce, per tenere il ritmo con il corpo che non lo tiene più smettiamo di badare a far bene il lavoro: facciamo cadere acini a pioggia, tiriamo i grappoli con le mani, se si spezzano tanto peggio, li lanciamo verso il cavagno senza attenzione, se cadono fuori dalle cassette tanto peggio, purché quelli non se ne accorgano. Questo vino avrà pure un cestino pieno di certificazioni ma di certo noi non ci trattano biodinamicamente. E quant’è scomodo da tagliare.
In Piemonte quest’anno mi hanno chiamata cinque aziende vinicole: dire che non ho esperienza né la forza del 20 anni. Il fatto è che di vendemmiatori c’è un gran bisogno: i tagliatori abituali, macedoni e rumeni in maggioranza, non sono potuti venire perché sarebbero stati obbligati alla quarantena. È grazie a loro, grazie a un’assenza legata alla crisi sanitaria, che sono qui. Ma che grazie è, quello che affonda in una situazione del genere? E loro, quelli rimasti dall’altro lato dell’Adriatico, cosa fanno in questo settembre arso, come guadagnano, e quanto?
Oggi ho preso il posto degli immigrati.
Ne ho preso il salario, 7 euro all’ora duri da farsi bastare e che non avrei accettato in tempi di non emergenza. Ne ho preso la schiena curva e una sete che non finisce più.
Con l’accumularsi dei giorni mi porto appresso una domanda: dove inizia la storia? Cioè, sono loro che hanno fatto abbassare il prezzo della manodopera, è perché da anni ci so- no macedoni e rumeni che adesso la paga è di appena 7 euro? O, al contrario, questo è il salario agricolo minimo e per questo da anni al nostro posto ci sono quelli che vengono da Paesi in cui lavoro e vita costano meno? Con questi soldi in Romania e in Macedonia si riesce a mangiare, pagare le bollette, mandare i figli a scuola e godersi un po’ la vita?
“Si può fare una pausa per bere?” chiede uno a un certo punto. È, la sua, la voce di tutti. Ma dal filare non arrivano risposte.
Siccome le bottiglie d’acqua sono in testa, tanto lontane che chi si ricorda più dove le abbiamo lasciate (impensabile portarsi appresso acqua o zainetto: troppo faticoso) nessuno ha il coraggio di interrompere il taglio per andare a prenderle. Quando finiamo e andiamo alla canna dell’acqua a toglierci la giornata di dosso guardiamo il termometro. Sono le sei di sera e ci sono 34 gradi.
Nel Canton Ticino l’uva è scenografica (ancora di più per chi non deve trottare su e giù per la collina tutto il tempo): i filari sono preceduti da rose e i chicchi sono scuri, tondi e sodi. Per questo viene la televisione. Una mattina si presentano due tizi con microfoni e telecamere e intervistano l’enologa e tutti noi, più volte perché sbagliano prima l’inquadratura, poi la luce e poi perché non andava bene l’audio. Fanno a ognuno la stessa domanda e sento girare risposte analoghe: nessuno se l’aspettava e comunque non è che siamo qui per pensare alla TV, siamo alle prese con i grappoli attaccati dai moscerini e dobbiamo stare attenti a selezionarli.
“Perché hai scelto di fare questo lavoro?”: è questo che chiedono.
Sarà la televisione che è fatta così, o è perché sono svizzeri? Perché, d’accordo, è bello stare all’aperto, in un ambiente sano, a contatto con la terra, difatti è quello che ripetiamo manco ci fossimo messi d’accordo: ma nessuno tira fuori le frasi che penso di non essere la sola ad avere in testa. Sono qui perché ho bisogno di guadagnare. Perché pagano meglio, quasi il doppio, che da noi. Perché da noi non ho trovato nulla. Ma loro non ci chiedono dove sia il “da noi”: non ci domandano da dove veniamo. Solo ripetono le domande mentre ci invitano, con gentilezza e buoni modi, ad avvicinare le mani che reggono i grappoli alla cinepresa, anche le forbici, più piano, bene così, inquadratura fantastica, grazie. Come si fa a chiedere a un operaio a chiamata perché abbia deciso di fare l’operaio a chiamata, come se fosse un sogno grande quanto il lago qui sotto? Oppure in Svizzera stanno così bene che lavorano per scelta e solo se trovano un impiego soddisfacente, con un pranzetto di lasagne compreso? O è che in fondo non lo vogliono sapere, da dove veniamo: perché potrebbe venire fuori che siamo frontalieri, potrebbe venire fuori che prendiamo assai meno di uno svizzero. E questo è un programma di intrattenimento sui mestieri legati alle stagioni, non un intermezzo sui rapporti tra Paesi confinanti. Sono contenti, comunque, delle interviste, così contenti che ci fanno un omaggio. Mentre lo scarto penso alla polvere e alla paga della vigna piemontese: uva e vino da una parte e dall’altra ma mondi che distano ben più di qualche centinaio di chilometri e una dogana grigio stinto.
Sono le cinque quando parto dalla vigna: l’orario peggiore. Ci sarà una gran coda in dogana, ci saranno tutti quelli come me
che tornano a casa, in Italia. Ci vorrà un sacco di tempo, ogni giorno ci vuole un sacco di tempo per uscire da un mondo ed entrare in un altro.
In Piemonte ho preso il posto e il salario degli immigrati. In Svizzera sono un’immigrata.
16 franchi orari sono buoni, li accetterei sempre, crisi economica o meno. Qui, però, no. “Nessuno svizzero vuole una paga così bassa”, mi sento dire: ecco perché ci sono solo macchine con la targa italiana di fianco ai filari ticinesi. Ecco, anche, il perché di tanti comportamenti ambivalenti: da un lato facciamo comodo, noi immigrati pagati di meno; dall’altro ci guardano storto perché abbassiamo il prezzo della manodopera del Paese di mucche e orologi a cucù. Come macedoni e rumeni in Piemonte. Stessa storia, sempre.
Secondo me ci guardano storto pure perché siamo diversi: chiassosi, disorganizzati, raffazzonati. Perché siamo sempre alla ricerca di un parcheggio gratis, anche i marciapiedi vanno bene. Chi lo sa se siamo troppi, come dice la campagna referendaria contro “l’invasione”. Quel che è certo, e me lo dicono in tanti, è che: “se hai il passaporto italiano, prendi il 30% in meno di uno svizzero”
E questo, agli svizzeri, qualche noia deve pur darla. Tanto quanto a me pesa l’ossuta paga piemontese.
Di qua e di là c’è in ballo sempre un buon 30%. 30% in meno in Svizzera, 30% che dovrebbero in più darmi in Piemonte, per arrivare a una cifra ragionevole. È il 30% delle genti in cammino: di quelli che si mettono in moto dalla Macedonia e di quelli che partono dalla Lombardia.
Polvere da una parte, umido dall’altra. Focaccia del fornaio di qua e pizze che arrivano dal ristorante di là. Grappoli tirati già a tutta birra e acini controllati uno a uno. Niente aggiunta di solfiti e trattamenti antiossidanti. Italia, Svizzera. Vicine e lontane. Qualcosa che ha accomunato le due esperienze, comunque, c’è. I padroni, per cominciare. Sia in Svizzera sia in Italia, i signori sono i signori. E se gli svizzeri quanto meno salutano, è pur vero che mentre siamo alle prese con quel lavoraccio di lavare le cassette, curvi, chinati e bagnati, la signora con il figlio passano a bordo di una golf car. Lei ci domanda se possiamo far lavare qualche cassetta al bambino, così, per far giocare il signorino. Mentre in Piemonte la signora vestita da gara d’equitazione fa fare il giro del recinto al cavallo, dieci minuti a essere di manica larga, e il figliolo ha treccine in testa che fanno tanto alternative.
Quello che avvicina le due esperienze è, anche, una frase. La stessa. In Piemonte me la dice il ferroviere pugliese e in Ticino il custode salernitano: “alla fine noi operai per i padroni siamo solo dei numeri”. Quello che le accomuna, allora, sono Salerno, la Puglia, l’Albania, la Macedonia, la Romania e la Lombardia. Perché in ogni Nord c’è un po’ di Sud. E di Est.
E poi le persone. Noi. Soprattutto noi: i tagliatori, ciascuno con la propria storia lontana e vicina, chi con i musi lunghi, chi con la sigaretta sempre a un angolo della bocca, chi con addosso tutine attillate e chi perso a fischiettare o a canticchiare. I vendemmiatori.
Così succede che quando arriva l’ultimo giorno dispiace che sia finita. Dispiace perché quella frase banale per la televisione, che si sta bene all’aria aperta, con i piedi nella terra e le dita che sanno di zucchero, fianco a fianco con gente che diventa un po’ meno sconosciuta man mano che passano le ore, quella frase è vera.
Vendemmiare è un bel lavoro.
La vigna è un luogo di sudore, di battute di spirito e richiami dei capi, di vento e silenzio, di troppo caldo o troppo bagnato, di rami torti e allungati e schiena e spalle che dopo qualche tempo iniziano a cigolare. Un luogo al quale il corpo si abitua con il passare dei giorni, dove si condividono l’acqua e il pane, dove si scambia qualche parola di tanto in tanto e per il resto del tempo la testa va dove le pare. Un luogo dove si fa fatica tutti assieme e dove, a fine giornata, quando ci si guarda indietro con le forbici e il cavagno in mano si vedono filari lunghi punteggiati di cassette piene fino all’orlo di grappoli color tramonto.